LA CURA DI SE’ NELL’ERA DELL’ONNIPOTENZA
Oggi ho ascoltato un’intervista che ha confermato la mia ipotesi dell’aumento dell’uso di farmaci antidepressivi.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha recentemente rivelato un dato significativo: l’uso di antidepressivi è in forte crescita in tutti i paesi esaminati, con percentuali impressionanti come il +46% in Germania negli ultimi quattro anni.
In Islanda, una persona su dieci assume regolarmente antidepressivi, mentre negli Stati Uniti questa cifra sale all’11% della popolazione dai 12 anni in su. Tra gli americani, il 60% delle persone che assumono antidepressivi sono in cura da almeno due anni; il 14% di loro ha assunto farmaci per 10 anni o più.
Ma cosa ci raccontano davvero questi numeri?
Viviamo in una società che ha dichiarato guerra alla sofferenza, al dolore, alla tristezza. In un mondo in cui ogni sensazione sgradevole è da eliminare, anestetizzare, rimuovere.
Invece di incoraggiarsi a fermarsi e ascoltare il proprio stato d’animo “indesiderato”, vi è delle soluzioni di “risolverlo” subito, come fosse una malattia di cui vergognarsi. L’idea dominante sembra essere che debolezza e fragilità vadano nascoste, coperte da farmaci, senza mai considerare che proprio attraversando dolore e difficoltà potremmo ri-trovare la nostra forza vitale; che comprendendo che cosa sto vivendo in questo momento mi svela l’individualità; che osservando la frustrazione possibile trovare via verso la gioia autentica.
Siamo diventati così incapaci di prenderci cura di noi stessi che la risposta più facile è una “cura” rapida e senza sforzo?
La depressione esiste, e certamente non va ignorata e la depressione grave deve essere aiutata con i farmaci. Ma il consumo indiscriminato degli antidepressivi solleva una domanda: ci sono davvero tanti ‘malati’, o si tratta dell’incapacità di affrontare la quotidianità che fa credere di esserlo?
Oppure si tratta di voler nascondere le difficoltà?
O si tratta di provare vergogna di parlare con qualcuno?
Oppure l’ossessione per il successo e positività ‘esteriore’ ci rende schiavi dell’apparenza, e sembra non ci sia più spazio per i momenti di debolezza, per un semplice “non ce la faccio” o “sono stanco”.
Mi confronto ogni giorno con le persone abituate a successo, privilegi e riconoscimenti che per reggere lo stress si sentivano obbligati a mantenere l’immagine di successo, nascondendo ogni traccia di cedimento e di stanchezza.
Una donna ci ha messo quasi due anni per sciogliere l’insensibilità attorno alla sua stanchezza. Voleva “migliorare” ancora di più, probabilmente, per non sentirsi del tutto.
Lentamente ha smesso di reprimere ogni disagio, come fosse un difetto da cancellare, lo ha iniziato riconoscere e affrontarlo.
È proprio in questi momenti di oscurità e buio che ognuno di noi ha l’opportunità di conoscersi davvero.
Prendersi cura di sé non è semplice autocompiacimento, né uno slogan da social. Non è l’idealizzazione dei momenti di positività con la dopamina alle stelle, ma trarne l’energia vitale per poter affrontare le difficoltà.
Significa piuttosto imparare a sentire ed elaborare la sofferenza, senza rifugiarsi in un benessere illusorio e superficiale. È un processo in cui si accoglie anche la tristezza, la nostalgia, persino la delusione, senza tentare di sottrarsi a questi sentimenti, ma anzi, integrandoli.
La nostra cultura non accetta più questi momenti di crisi come fasi necessarie: ci racconta, invece, che chiunque può essere vincente, eccellente, imbattibile.
Ma qual è il prezzo di questa illusione?
Non si tratta di glorificare la sofferenza, ma di riconoscerla come un’opportunità di crescita e trasformazione.
Eppure, quando le persone esprimono la loro richiesta di aiuto, mi sembra che “migliorare” ha l’unico significato del loro obiettivo: migliorare nascondendo l’umanità e spontaneità in modo piu’ efficiente.
Ho sempre più spesso le sessioni con creature belle e brillanti che cercano soluzioni veloci verso il successo, incapaci di accettare il senso del limite, in balia di un’onnipotenza, che le rende fragili e vulnerabili alla prima caduta. Alla prima caduta chiedono l’aiuto dei farmaci. Ripeto, non sono contraria ai farmaci. Ci sono le situazioni dove la cura è un semplice contatto con il proprio sentire, dove l’elaborazione dei pensieri automatici è necessaria alla qualità e non solo all’apparenza.
Se non iniziamo a prenderci cura delle nostre ferite emotive, se non diamo spazio ai nostri sentimenti più cupi, continueremo a inseguire una felicità apparente, una realizzazione vuota che svanisce al primo fallimento.
Forse è tempo di riscoprire che c’è dignità nella vulnerabilità e saggezza nel riconoscere il proprio limite.
Forse la vera cura di sé non è sfuggire al dolore, ma accoglierlo come parte del percorso umano.
Provare sentimenti depressivi (si, ‘depressivi’, in senso della perdita, dell’oppressione, della mancanza del flusso vitale dall’interno) non è un segno di debolezza, ma un’occasione per diventare più forti d’anima, più solidi, più integri.
Abbiamo il coraggio di ammettere che ‘essere umani’ significa anche confrontarsi con la frustrazione, con la tristezza, con la paura, con la perdita?
Buon coraggio!
Olga De Bacco
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